Conflitto di interessi - lezione SSPL 27/04/2015
Art. 6-bis legge 241/1990
Il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale.
Il conflitto di interessi di norma si presenta allorquando un soggetto versa in una situazione di coinvolgimento personale, diretto o indiretto, che gli impedisce di procedere con imparzialità su una determinata questione, imponendo allo stesso un obbligo di astensione al fine di non compromettere la propria azione.
Il conflitto di interessi di norma si presenta allorquando un soggetto versa in una situazione di coinvolgimento personale, diretto o indiretto, che gli impedisce di procedere con imparzialità su una determinata questione, imponendo allo stesso un obbligo di astensione al fine di non compromettere la propria azione.
L’interesse, la cui presenza determina l’obbligo di astensione, non deve essere inteso come il vantaggio di natura patrimoniale. Analogamente, non è sinonimo di lucro o di utilità, ma comprende ogni interesse personale, anche non economico e del tutto affettivo, quale la finalità di favorire altri quando da ciò derivi per l’agente una situazione di vantaggio nella sfera personale delle sue relazioni sociali ed amicali. In generale, la situazione di “interesse proprio o di un prossimo congiunto”, che obbliga all’astensione, si configura ogni qual volta il pubblico ufficiale si trovi in una situazione oggettiva potenzialmente idonea, secondo l’id quod plerumque accidit, a minare le condizioni di imparzialità in relazione all’esercizio della sua funzione.
Rapporto con artt. 51 e 52 c.p.c.
Rapporto con artt. 51 e 52 c.p.c.
Nei procedimenti disciplinari, la giurisprudenza aveva già chiarito prima della introduzione dell'art. 6-bis ad opera della legge 190/2012, che il principio di imparzialità (art. 97 Cost.) comportasse l'obbligo di astensione del membro di commissione disciplinare che avesse un interesse personale, in quanto una tale circostanza avrebbe posto in crisi la sua necessaria serenità di giudizio, con ciò violando apertamente il dettato costituzionale (si veda TAR Puglia Lecce 4594/2007). Il caso emblematico era quello dei dissidi personali tra il Presidente della commissione e l'incolpato.
L'obbligo di astensione veniva infatti considerato attuazione dell'esigenza per cui la parità di trattamento e l'imparzialità dei pubblici ufficiali dovesse essere garantita «oltre ogni ragionevole sospetto».
Infatti, l'imparzialità era vulnerata, non solo in caso di adozione di un provvedimento illegittimo, ma anche dalla potenzialità astratta della lesione della parità di trattamento e quindi anche dal solo sospetto di una disparità (cfr. Cons. Stato 2070/2009, TAR Lazio Latina 42/2011).
Con l'introduzione della specifica disciplina del conflitto di interessi, il legislatore ha coniato un canone di generale applicazione, che postula ineludibili esigenze di imparzialità, trasparenza e parità di trattamento; l'alveo applicativo di tale principio va ricondotto alle determinazioni dal contenuto discrezionale, che implicano quindi apprezzamenti di stampo soggettivo che ben possono, anche solo in astratto, essere condizionati dal fatto che chi concorre all'adozione dell'atto versa nella vicenda un interesse personale, ma non anche quando l'atto si fondi sulla oggettiva verifica di requisiti, presupposti o condizioni predeterminati da rigide previsioni normative (si veda TAR Campania Salerno 580/2014).
Del resto, l'obbligo di astensione per incompatibilità al quale devono attenersi i membri di organi collegiali ricorre per il solo fatto che essi siano portatori di interessi personali che possano trovarsi in posizione di conflittualità ovvero anche solo di divergenza rispetto a quello generale, risultando ininfluente che nel corso del procedimento l'organo abbia proceduto in modo imparziale ovvero che non sussista prova che nelle sue determinazioni sia stato condizionato dalla partecipazione di soggetti portatori di interessi personali diversi, atteso che l'obbligo de quo è espressione del principio generale di imparzialità e di trasparenza (art. 97 Cost.) al quale ogni Pubblica amministrazione deve conformare la propria immagine, prima ancora che la propria azione. (così Sez. V, 3133 del 28 maggio 2012).
In caso di organi collegiali, ancor prima della previsione dell'art. 6-bis, si riteneva che l'amministratore pubblico
doveva astenersi dal prendere parte alla discussione e alla
votazione nei casi in cui sussistesse una correlazione immediata e
diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi
suoi o di parenti o affini fino al quarto grado; tale obbligo di
allontanamento dalla seduta, in quanto dettato al fine di
garantire la trasparenza e l'imparzialità dell'azione
amministrativa, sorgeva per il solo fatto che l'amministratore
rivestisse una posizione suscettibile di determinare, anche in
astratto, un conflitto di interessi, a nulla rilevando che lo
specifico fine privato fosse stato o meno realizzato e che si fosse prodotto o meno un concreto pregiudizio per la p.a. (Cons. Stato, sez. IV, 28 gennaio 2011, n. 693; T.A.R. Liguria - Genova, sez. I, sentenza 26 maggio 2004, n. 818). In questi casi, il membro dell'organo collegiale dovrebbe allontanarsi dall'aula perché la sola presenza dello stesso può potenzialmente influire sulla libera manifestazione di volontà degli altri membri. Il principio è stato ribadito dal TAR Lombardia Milano,1137/2013.
Un'ipotesi particolare riguarda il pubblico concorso. In questo caso, la giurisprudenza ha chiarito che le commissioni giudicatrici, nei concorsi pubblici — anche universitari -, devono garantire, nella loro composizione, trasparenza, obiettività e terzietà di giudizio, rappresentando, questi, principi irrinunciabili a tutela della parità di trattamento fra i diversi aspiranti ad un posto pubblico; pertanto, in assenza di specifiche norme in materia di astensione e di ricusazione, ad esse possono applicarsi sia i principi costituzionali di cui all'art. 97 (come recepiti e sviluppati dagli artt. 1 e 6 bis , l. n. 241 del 7 agosto 1990 e successive modifiche), sia le cause di incompatibilità e di astensione del giudice codificate dall'art. 51 c.p.c., così come interpretate dalla giurisprudenza — che ha esteso il principio dell'astensione a tutte le volte in cui si possa manifestare un “sospetto”, consistente, di violazione dei principi di imparzialità, di trasparenza e di parità di trattamento (comunque inquadrabile nell'art. 51 comma 2 c.p.c.) -, con la conseguenza che tutte le volte che sia ipotizzabile un potenziale “conflitto di interessi” il soggetto giudicante si deve astenere (vd. TAR Sardegna Cagliari 459/2013).
Per giurisprudenza costante, comunque, i rapporti tra candidato e commissario, per
assurgere a causa di incompatibilità, devono
presupporre una comunanza di interessi economici
o di vita tra i due soggetti di intensità tale da far
ingenerare il sospetto che il candidato sia giudicato
non in base alle risultanze oggettive della
procedura, ma in virtù della conoscenza personale
con il commissario e tale situazione si verifica solo
se detta collaborazione presenti i caratteri della
sistematicità, stabilità, continuatività ed intensità
tali da dar luogo ad un vero e proprio sodalizio
professionale. Non comporta, invece, obbligo di astensione di
un componente la Commissione giudicatrice di concorso, la
circostanza che il commissario ed uno dei candidati abbiano
pubblicato insieme una o più opere. Si tratta, infatti, di ipotesi ricorrente nella comunità
scientifica, rispondente a esigenze di approfondimento di
temi di ricerca sempre più articolati e complessi, sì da
rendere in alcuni settori disciplinari estremamente difficile,
se non impossibile, la formazione di commissioni
esaminatrici in cui tali collaborazioni non siano presenti.
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